Chicago - Donatello chez les fauves

Sam - Nirit - Olivia

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  1. -Scythe-
     
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    Chicago - Donatello chez les fauves






    Weather: Cloudly
    Heat: 17°C
    Time: 3:08 p.m.
    Infection level: Medium


    Role by:
    - Sam - Scythe
    - Liv - aquamarine
    - Nirit - Rebecca Chambers




    South Loop, cortile tra la S State St e la S Holden Ct. In alto, sul prospetto di un edificio, campeggia ancora il Justus Roe's South State Painting del civico 1001; superstite, in un mondo che oltre ad aver quasi cancellato la razza umana sembra aver inghiottito anche gran parte di quello che è stato il suo modo di esprimersi, di cercare il bello... Di condividere significati. Gli occhi che lo scrutano per un breve istante, vuoti e disinteressati, sono quelli di un uomo che un tempo - su opere di quel genere - ci avrebbe scritto dei saggi o delle blog review.
    Oggi, però, dentro Samuel Perkins quegli interessi sono rimasti sopiti, brutalmente sedati dai continui face to face con la morte, dal dolore, dal progressivo dissiparsi delle speranze residue. L'oggetto del suo interesse è ciò che si trova sotto quel groviglio di colori e forme geometriche: un Hilti Store, o quel che ne rimane; un posto in cui poter reperire utensili o vari articoli di ferramenta, tutto quel che può servire per sopravvivere... A parte i prodotti di prima necessità.
    La presenza di alcuni "fauves" sulla State Street lo ha fatto optare per un ingresso dal retro, più sicuro, attraverso una recinzione aperta sulla Holden Court.





    SAMUEL PERKINS ✔✔✔
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    ↘ I can only count to eight, not more.

    Provai a picchiettare con la lama del mio coltello sul glass panel della porta secondaria, avvertendo la mia sudorazione aumentare: se il rumore si fosse rivelato eccessivo sarei finito con l'attirare i fauves che avevo visto sulla State Street e non mi sarebbe rimasta che una sola, unica opzione... Quella di darmela a gambe. Certo, avrei potuto affrontarli in quel cortile, ma il minimo errore avrebbe potuto fare - di quello spazio più ristretto - la mia tomba. Perchè rischiare, quando puoi cavartela a buon mercato?
    La totale assenza di rumori dall'interno mi diede sollievo e mi motivò a proseguire. Per di più nessuno di quei cadaveri ambulanti mi aveva seguito dalla strada principale, quindi... Perché non entrare? D'altronde ero lì per questo, per trovare qualcosa di utile che potesse - nell'immediato futuro - aiutarmi ad improvvisare dei piccoli sistemi buoni per continuare a salvarmi il culo.

    Quando lo feci badai a richiudere la porta del retro alle mie spalle, con una lentezza tale che mi sembrarono scorrere davanti per intero tutti i 238 minuti di "Gone with the Wind". Attraversato un breve corridoio mi avvicinai al varco che conduceva verso l'ambiente principale del negozio. Prima di addentrarmi oltre feci urtare un paio di volte la lama del coltello contro un paletto di sostegno metallico, in cerca di ulteriori garanzie sulla possibilità che quel luogo potesse essere davvero sgombro di fauves.
    Troppo facile - pensai dentro di me, ma provai repentinamente a cacciar via quel pensiero prima che facesse scendere l'asticella del mio morale sotto le suole delle mie scarpe, lì dove spesso rimane ancorata. Eppure fu inevitabile che accadesse, e accadde: davanti a me si aprì esattamente quello scenario che speravo di non trovare quando resi, la visita in quel luogo, un mio obiettivo e una mia priorità. Era già stato saccheggiato, forse giorni, mesi prima.
    Niente morti? Davvero speravo di trovare qualcosa e di non dover sputare sangue per ottenerlo? Lo avevo già intuito fin dall'inizio, ma forse mi ero auto-imposto di realizzarlo più tardi, giusto per non partire già da sconfitto. L'assenza di fauves voleva dire soltanto una cosa: qualcuno aveva già ripulito il negozio, e sfondato il cranio a qualunque cosa l'avesse ostacolato. Era rimasto davvero molto poco, avrei dovuto accontentarmi di qualche scatola di chiodi, forse una manciata di viti e bulloni di cui non me ne sarei fatto nulla o quasi.
    Quando sguazzi nella merda per anni ogni piccola conquista può farti sentire come se fossi arrivato in cima al K2, e ogni piccola delusione di farti sfociare in uno stato deprimente tale da farti venire voglia di lanciarti tra le fauci dei morti e di farla finita una volta per tutte. Nonostante lo stato d'animo che ne conseguì inevitabilmente, decisi ugualmente di dare un'occhiata e di fare miei quei pochi oggetti che valeva la pena di infilare nella mia sacca. Sul ripiano di uno scaffale vicino al bancone scorsi un paio di scatole di chiodi e un martelletto, così piccolo da rendere perfino stupida l'idea di poterlo utilizzare per scopi diversi da quello per cui è stato prodotto. Riposi quegli oggetti tra i miei averi, e non mi diede alcuna consolazione: non ci avrei fatto granchè nei giorni a venire, e quel poco... Avrebbe fatto rumore, tanto rumore.

    E così lo stai facendo di nuovo, Sam...
    Quella voce... Mi fece sussultare. Abbassando lo sguardo la trovai lì, rannicchiata di spalle sulla pavimentazione, a poca distanza da me.
    Devon...
    Pronunciai il suo nome, volevo solo che si voltasse... Ma non lo fece. Sentivo dentro di me vorticare un turbine di sensazioni contrastanti tra loro, che mi facevano sentire vivo e che avrebbero potuto uccidermi al tempo stesso. Gettai a terra la sacca e il coltello e mi inginocchiai, dietro di lei, mentre il rivolo di una lacrima mi rigò il volto. Quando provai a poggiare la mia mano destra, tremante, sulla sua spalla... Sentii un contatto vivo e fui certo che lei fosse davvero lì, che fosse reale, e strabuzzai gli occhi. Ma lei, mia moglie, non si mosse di un solo centimetro.
    Cosa? Cosa sto facendo di nuovo? Ti prego, guardami.
    Provai a strattonarla debolmente, ma non cambiò nulla.
    Prima la canna da pesca, ora i chiodi, il martello... Giochi a fare l'uomo di casa? Il buon padre di famiglia? E' finita, Sam. Tu ci hai lasciati MORIRE.
    Non riuscii a dire niente. Il dolore iniziò a stringermi la gola, togliendomi il respiro. Riuscivo a sentire i miei battiti picchiare contro la cassa toracica: sentivo il mio cuore esplodere, volevo solo che si fermasse. Lo strazio deformò i lineamenti del mio viso, al punto da serrare con vigore le mie palpebre e non lasciarmi vedere più nulla.

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    Edited by -Scythe- - 28/6/2019, 20:57
     
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    Ci eravamo lasciate Wicker Park alle spalle da appena un giorno. Senza la nostra mappa - quella piena zeppa di appunti e simboli sui putrefatti e i percorsi inaccessibili, lo stato dei vari negozi ed eventuali rifugi d'emergenza - era stato più arduo del previsto spostarsi verso un altro quartiere. Non avevamo avuto scelta... Per quanto fosse stato difficile voltare pagina da un punto di vista emotivo, entrambe avevamo concordato sul non poter più restare nella zona. A prescindere dalla scarsità di viveri e utili, la relativa tranquillità del posto ci esponeva moltissimo ai "predatori", a quei teatranti psicopatici che nel giro di pochi giorni avevano decimato il nostro piccolo gruppo. Di sicuro, eravamo più a rischio lì che in un quartiere più grande, come il Loop o China Town tanto per fare un esempio. Ecco perché fino a quando non saremmo riuscite a venire a capo dell'intera questione, liberandoci del fiato sul collo da parte della compagnia di IT, ci saremmo "nascoste" là dove solo dei pazzi avrebbero osato spingersi. Come il Loop.

    Per buona parte del viaggio avevamo camminato sull'inter-statale 90 (sempre meglio che la Milwaukee Ave, avevo proposto), evitando il centro città. A parte le chilometriche file di auto abbandonate e qualche folto gruppo di putrefatti in movimento, la scelta si era rivelata proficua: i tempi si erano ridotti, proprio come i rischi; in meno di qualche ora di cammino avevamo messo piede, per la prima volta dopo dieci mesi, nei dintorni del Loop. Il solo leggerne il nome sulle enormi tabelle verdi visibili dai raccordi autostradali mi aveva provocato un nodo allo stomaco. L'ultima volta ne eravamo venute fuori per miracolo... Certi ricordi erano difficili da arginare. Infatti, quando mi accarezzai il braccio per contrastare uno strano formicolio, mi resi conto di avere la pelle d'oca. Uno sguardo d'intesa con Amar e, andando contro il vento freddo che ci seccava il viso, iniziammo la discesa nel quartiere.

    * * *

    La tregua con i Teatranti era ormai finita quindi, allo scoccare dell'ultimo giorno libero, avevamo preparato gli zaini con dentro l'essenziale ed eravamo partite.
    La donna che ci aveva tenute in ostaggio al centro sportivo era stata di parola: due intere settimane senza incontri macabri, teste mozzate come monito né orde di morti viventi indirizzate verso di noi. Ecco perché, appena riprese le forze, avevamo in tutta fretta organizzato la partenza... I giochi sarebbero ricominciati presto, in pieno stile Anarchia - la notte del giudizio, non volevamo assolutamente farne di nuovo parte. Il nostro unico desiderio era lasciarci quella storia alle spalle e possibilmente anche Chicago. Cambiare città, addirittura Stato, e ricominciare altrove. Insieme.
    Ero addirittura riuscita a convincere la mia compagna a rinunciare a Owen e Julian, i due ragazzi che per un periodo di tempo ci avevano accompagnate e che avevano finito col diventare ostaggi di IT. Se avevo considerato spacciato il secondo fin dal principio, il pensiero di Owen mi aveva provocato qualche senso di colpa prima che la ragione avesse la meglio. La rivalità amorosa in quel contesto c'entrava ben poco: ne andava della nostra vita e poi lui era stato ferito... « Probabilmente a quest'ora sarà già morto » avevo detto convinta a una Nirit commossa. Rischiare la nostra vita per salvarlo si sarebbe potuto rivelare un errore fatale che io non ero disposta a correre. Eppure mi dispiaceva per lui, molto molto in fondo, perché la Amar gli si era affezionata e perché sapevo di non avergli mai dato una vera chance. La cosa positiva in tutta quella faccenda era che finalmente mi sentivo in grado di coinvolgere gli altri nelle scelte che ritenevo giuste: avevo acquisito sicurezza, evitavo di sopprimere le mie emozioni in favore del ben volere altrui, mi esponevo e mantenevo la mia posizione. Il drammatico epilogo del centro sportivo aveva avuto anche i suoi lati positivi, dopotutto.

    * * *

    « Di qua! » la mia voce sovrastò presto il silenzio mortifero di Chicago. Non avevamo neanche messo piede nel South Loop - quindi neanche il centro vero e proprio... - e già dovevamo defilarci. Le gambe lunghe di Nirit le conferivano un vantaggio fisico non indifferente, consumava meno energie rispetto a me che dovevo tenere il passo. Senza contare il peso aggiunto al mio zaino che mi rendeva meno stabile... Poco importava: dovevamo trovare il modo di uscirne.

    La strada che avevamo iniziato a percorrere ci era sembrata sgombra, all'inizio. Cinque putrefatti al massimo, tutti chini e concentrati sulla carcassa di un uomo ormai silenzioso. Era un'immagine inquietante ma, per esperienza personale, dei putrefatti impegnati nell'assaggio di carne fresca erano meno recettivi ad altri stimoli esterni. Se proprio ci avessero sentite, sarebbe stato assai semplice seminarli e continuare la ricerca di un negozio in cui rifornirci e magari fermarci a riposare. Decidemmo di attraversare quella stradina senza sapere che avremmo compiuto una buona azione salvando una vita.

    Sul marciapiede poco più avanti del gruppo di commensali c'era un gatto. Pelo grigio con delle striature nere, in apparenza ben curato. Se ne stava elegantemente seduto a fissare la vetrina di un vecchio drugstore; a dire il vero, sembrava attratto da qualcosa all'interno perché era come rapito. Erano secoli che non vedevo un gatto, uno che fosse vivo intendevo. Osservai il gruppo impegnato a consumare il proprio pranzo poi di nuovo il gatto, mentre le distanze si riducevano drasticamente e allo stesso tempo aumentava il rischio di essere sentite, scoperte e braccate. I versi dei primi mi avevano fatto drizzare i capelli dietro la nuca. Era un orrore a cui non ci mi sarei mai potuta abituare... Suggerii a Nirit di usare un passo furtivo, prima li avremmo distanziati prima quell'ansia sarebbe scemata. Una decina di passi oltre i divoratori e capii che cosa attirasse così tanto il gatto... Dietro la porta di vetro del drugstore, c'erano le inconfondibili sagome di altri putrefatti. Riuscii a vederne due, che toccavano il vetro con le dita violacee e sporche e continuavano a sbatterci contro la testa. Il gatto a quel punto si alzò sulle due zampe: ingenuamente e scioccamente, voleva giocare col dito del mostro. Tentai di guardare altrove, di andare avanti e ignorare un animale indipendente e di sicuro in grado di cavarsela da solo, ma continuavo a sentire degli strani rumori in sottofondo... Non si trattava dell'acquoso maneggiare le viscere umane, piuttosto di un rumore cristallino... come di vetro infranto.
    « Hai sentito? » sussurrai a Nirit, guardando oltre la mia spalla e chissà per quale ragione proprio in direzione di quel gatto. Mi accorsi di come la porta stesse cominciando a cedere sotto i colpi continui e insistenti del vagante. Di come il gatto stesse cercando di infilare la zampetta in quel foro pericolosissimo. Di come il suo odore stesse facendo diventare più volenti i putrefatti dall'altra parte. Un respiro profondo e svelta, quasi correndo, fui poco dietro al gattino. Ci sapevo fare con gli animali e lui sembrava anche piuttosto in vena di attenzioni e coccole... Forse era stato abbandonato da poco, considerai. Controllai lo stato del vetro: non era ancora irrimediabilmente compromessa ma non c'era molto tempo. Accarezzai il gattino sulla coda, poi sul dorso.
    « Ei piccolino, non è sicuro per te qui » si fece accarezzare e, dopo aver accettato delle brevissime fusa, riuscii a prenderlo in braccio. Intanto, data la mia vicinanza, i rumori all'interno del vecchio drugstore si fecero più intensi e i colpi più violenti. Non erano in pochi, lì dentro.
    « Andiamocene » e accelerai il passo verso Nirit. Non sapevo come l'avrebbe presa la storia del gatto, a dire il vero. Era la prima volta che agivo così d'istinto... Proprio quando le fui di fianco, il vetro della porta andò in mille pezzi lasciando fuoriuscire più vaganti di quanti mi aspettassi. Continuavano ad uscirne, famelici e rumorosissimi. Terrorizzata e con ancora il gatto tra le braccia, feci l'unica cosa possibile: toccai la spalla di Nirit e cominciai a correre. Sistemai - non senza difficoltà - il gatto nel mio zaino nel frattempo. Sperai che non saltasse via, condannandosi a morte certa ma lui, stranamente, si sistemò al sicuro e senza opporre alcuna resistenza.

    Ci orientammo a caso, il rischio di incontrare altri vaganti era altissimo specie se avessimo continuato ad inoltrarci verso il centro ma non avevamo altro modo. Altrettanto per caso ci ritrovammo davanti al cancello aperto su un cortile, arricchito da un murales pieno di colori. Chicago ne vantava diversi, perfino al polo universitario ce n'era uno. Quello però non l'avevo mai visto.
    « Dove andiamo Niri? » le dissi in ebraico col fiatone. Le alternative erano due: cercare di forzare la porta bianca o continuare a correre, passando sotto il piccolo ponte. Intanto, dietro di noi...


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    La nostra storia, mia e di Liv, non rappresentava altro che l'ennesimo inizio in un mondo dove, ormai, il termine fine non aveva più alcun significato. Nella vita ogni cosa aveva un inizio e una fine, eppure l'epidemia aveva annullato quel confine e perfino la morte stessa non era più assoluta come nel passato.
    Nello stesso modo, la nostra vita era iniziata nuovamente, come il nostro rapporto, e nulla sembrava essere più adeguato di ricominciare da un altro luogo, da un'altra città; ritenevo incredibile notare come l'epidemia e l'apocalisse non avessero mutato certe banalità: proprio come nel passato, era inevitabile cominciare una nuova vita dirigendosi in un'altra città.
    Non sarebbe stato semplice, specialmente a causa del divorante senso di colpa che provavo per avere deciso di abbandonare Owen e Julian, il cui ricordo (e rimorso) non mi avrebbe mai abbandonata. Non potevo negare che abbandonarli fosse stata una decisione consapevole, perché non avevamo alcun modo di determinare se fossero vivi oppure no... nessun cadavere, nessun macabro messaggio da parte di It.
    Per quanto ne sapevamo, forse in quel momento erano vivi e speravano di ricevere il nostro aiuto, considerando che non avevano altre possibilità; qualunque fosse la realtà, avevamo deciso di abbandonarli e, quindi, in un modo oppure in un altro, li avevamo comunque condannati a morte.
    Ero sconvolta dalla semplicità con cui Liv era riuscita a convincermi e non potevo sicuramente affermare che fosse (soltanto) a causa del profondo amore che provavo nei suoi confronti. Nelle settimane passate, dopo le prime apparizioni dei nostri persecutori, avevo progressivamente assunto un atteggiamento più remissivo, influenzata come sempre dalle mie emozioni, ma avevo anche compreso di dovere scegliere tra lei e gli altri: non avevo avuto dubbi, non avrei mai potuto averne.
    Avevo preso una decisione e avrei vissuto con le conseguenze di essa ma, sinceramente, non avevo potuto trovare obiezioni logiche alle parole di Liv: se anche fossero stati vivi, saremmo caduti nell'ennesima trappola dei nostri persecutori e, in quel caso, dubitavo saremmo riuscite a sopravvivere. Non stavamo combattendo per la nostra patria, non eravamo prive di scelte... avremmo combattuto per rassicurare la nostra etica e morale, non per salvare noi stesse e la nostra amata terra.
    Avevamo una scelta e avevamo scelto di fuggire da quel nemico soverchiante - che aveva ormai dimostrato di essere oltre le nostre possibilità -, per cominciare una nuova vita, insieme... e le scelte compiute per amore non potevano essere sbagliate.

    Sebbene fossi ancora piuttosto turbata e dilaniata dai sensi di colpa, avevo accolto con convinzione e sicurezza la proposta di Liv di dirigerci verso il Loop: apparentemente folle, considerando i rischi che avevamo corso in esso, ma in realtà molto astuta. Per quanto intelligenti e abili, per It e i suoi due compagni non sarebbe stato semplice superare intere schiere di ambulanti. In quell'area, un tempo meravigliosa e piena di vita, erano concentrate centinaia, forse migliaia di creature e il loro numero era un ostacolo insormontabile.
    L'esercito americano, il migliore nel mondo dopo quello israeliano, aveva fallito miseramente nel tentativo di arginare quelle infinite orde... quali possibilità avrebbero avuto tre folli solitari?
    In ogni modo, avremmo sostato nell'area fino a quando non fossimo riusciti a recuperare scorte e armi per abbandonare definitivamente la città, i folli e i nostri fantasmi.
    Ovviamente, per quanto potessimo pianificare e impegnarci, nulla avrebbe potuto realmente prepararci al caos e alla desolazione del Loop. I vaganti crescevano numericamente ad ogni passo, fino a diventare impossibili da gestire; fu necessario cambiare strada quasi immediatamente, prima ancora di essere realmente vicine al centro. Seguii Olivia, stringendo saldamente il fucile di precisione tra le mani, annuendo appena, malinconica ma comunque pronta e decisa.

    La deviazione ci condusse in una strada meno popolata, nella quale, sorprendentemente incontrammo una creatura viva: forse, era un piccolo segno positivo. L'azione improvvisa di Liv mi colse alla sprovvista e, per un istante, fui tentata di chiamarla a voce alta, prima che la ragione mi suggerisse di evitare di attirare attenzioni sgradite.
    Il fucile di precisione sarebbe stato inutile in quel frangente, sia perché utilizzato a breve distanza, sia perché rumoroso ma, sostanzialmente, non avevamo equipaggiamento: una pistola, il fucile e due coltelli erano le nostre difese. Amavo i gattini, come quasi tutti gli animali, ma dubitavo che avrei rischiato la mia vita per salvarlo... oppure mentivo semplicemente a me stessa, considerando che nella mia vita non avevo mai abbandonato alcuna creatura in difficoltà.
    Prima di abbandonare Owen e Julian, almeno.
    In parte, però, apprezzai quell'imprevedibile gesto di Liv, che era sempre stata remissiva, composta e tranquilla; finalmente mostrava quel lato del suo carattere che credeva di non possedere e che io, invece, avevo sempre cercato di rivelarle. Olivia aveva moltissime qualità e il coraggio era tra esse... senza considerare quanto fosse eccitante vederla così impetuosa e sprezzante del pericolo.
    I rianimati presenti nel negozio davanti a cui fu recuperato il gattino erano più di quanto potessimo immaginare e di quanto potessimo gestire; mirai con l'arma i mostri che, inizialmente, sfondarono il vetro, sia per proteggere Liv (in fuga) sia per valutare se fosse consigliabile sparare. Tentennai soltanto per un istante, posizionandomi alle spalle della mia compagna per proteggerla mentre quelle creatura attiravano altri loro simili: in pochi minuti, saremmo state inseguite da dozzine di rianimati.

    Nonostante l'assenza di alcuna indicazione oppure direzione precisa, riuscimmo a interrompere - sebbene brevemente - il contatto visivo con i nostri inseguitori: Non possiamo rischiare di essere accerchiate abbozzai in ebraico, abbastanza decisa ma comunque più interrogativa che affermativa Proviamo a nasconderci lì e attendiamo che si dimentichino di noi dissi, tornando per alcuni secondi ad essere la vecchia Nirit.
    Senza riflettere oppure ragionare, afferrai (con delicatezza e un sorriso dolce) la mano di Olivia e la trascinai verso la piccola porta bianca, dove colpii lo stipite con il fucile per attirare eventuali altri vaganti; non avevamo molto tempo, purtroppo, se il locale fosse stato invaso avremmo dovuto rientrare nella strada, sperando che i vaganti non ci raggiungessero e bloccassero nel giardino.


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  4. -Scythe-
     
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    Mi ci volle un po' prima di riuscire a reprimere quelle emozioni così forti che stavano rischiando di farmi collassare sul pavimento di quel negozio dimenticato da Dio. Non ci riuscii del tutto, sarebbe stato impossibile, ma sapevo che ritrovare un minimo di calma e tornare a respirare con regolarità mi avrebbe aiutato; era la prima, o forse l'unica cosa che avrei dovuto fare in quel frangente. Nella mia mente si stavano affollando tutti i ricordi legati alla scomparsa di mia moglie e di mio figlio Gary, molteplici, veloci, come dei frames assemblati alla rinfusa dal peggior regista che il mondo abbia mai conosciuto. Era qualcosa che non potevo scacciare a comando: per riuscirci avrei dovuto spegnere il cervello e sapevo - con assoluta certezza - che sarebbe successo solo e soltanto nel giorno in cui sarei finito sepolto sei piedi sotto terra, o smembrato tra le fauci di un fauve. Me lo portavo dietro, sempre, in ogni giorno e in ogni ora di quel che rimaneva della mia esistenza; ormai faceva parte di me, viveva dentro di me, come un demone che ti soggioga, al quale puoi solo rassegnarti, con cui puoi soltanto imparare a convivere. Con il tempo ero riuscito a perdonarmi per non essere riuscito a fare abbastanza per salvarli, forse grazie a quelle piccole conquiste quotidiane che mi tiravano su il morale, o all'incontro con quella giovane ragazza, quell'angelo che mi tese la sua mano quando le ombre di un baratro senza fine mi avevano quasi inghiottito interamente. Ma adesso che lo sentivo dalla sua voce, ora che lei era lì davanti a me, pronta a ricordarmelo e ad amplificare i miei sensi di colpa, era diverso... Cazzo se era diverso.
    Non so quanto tempo passò prima che riuscissi a replicare, forse una manciata di secondi, forse qualche minuto, forse un'ora. Cosa sono il tempo e lo spazio, d'altronde, quando sai che tua moglie non c'è più ma ne percepisci la presenza fisica e riesci a sentire la sua voce? Ero confuso, mi sentivo in equilibrio precario su una fune tesa in mezzo ad un precipizio; potevo continuare ad avanzare con coraggio e provare a tornare con i piedi poggiati al suolo, ad inseguire la ragione, oppure cadere e rimanere intrappolato in qualcosa che nel migliore dei casi mi avrebbe condotto alla follia, nel peggiore alla morte.

    Quelle cose. Le faccio per... Per continuare a sopravvivere - risposi, babettando più volte. Lo trovai incredibile: ero riuscito a contestare una sua frecciata, giustificando quello che facevo come se fosse necessario o dovuto, un po' come facevo qualche volta quando c'erano ancora le mura della nostra casa a proteggerci, a segnare i nostri spazi vitali, a delimitare una dimensione familiare. Ma non mi soffermai minimamente su quella tremenda accusa che mi rivolse. Forse sapevo che non avrebbe cambiato le cose: sapevo di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per tirarli fuori da quella gabbia di fauves, e anche che adesso non sarebbe più stato possibile tornare indietro per cercare di muovere in maniera diversa i fili del fato. Argomentare ulteriormente avrebbe soltanto prolungato il mio calvario, e questo io non lo volevo, dovevo evitarlo ad ogni costo.
    Devon finalmente si mosse: si alzò in piedi, lentamente, con una leggiadria che non le era mai appartenuta. Poi finalmente si voltò verso di me e mi tese una mano. Il mio sguardo si soffermò sulle sue dita, quelle che tante volte avevo toccato, intrecciato con le mie. Era la sua mano sinistra, c'era ancora la fede nunziale stretta al suo anulare. Poi, però, assottigliai lo sguardo e la mia fronte si aggrottò spontaneamente quando notai che il colorito della sua pelle era dominato da un pallore innaturale. Il mio raggio visivo, poco dopo, si orientò istintivamente verso l'alto, ad inquadrare i lineamenti del suo volto.
    Mi si raggelò il sangue: i miei occhi stavano quasi per uscir fuori dalle orbite e un brivido mi salì lungo la schiena. Il panico che mi afflisse si trasformò in energia, quella sufficiente a far guizzare la mia mano destra sull'impugnatura del coltello e a far si che con il resto del corpo mi trascinassi all'indietro, strisciando a terra, il più lontano possibile da lei... Fino a quando non mi ritrovai con la schiena poggiata contro il bancone di quel negozio e il braccio armato teso in avanti, tremante, instabile.
    Devon aveva mezza faccia divorata, incrostata di sangue scuro coagulato. L'unico occhio che le era rimasto, quello destro, era privo di colore, senza iride. Una parte del suo collo era maciullata e aveva fatto sgorgare verso il basso, sulla sua veste, chissà quanti litri di sangue ormai completamente asciutto e non più vermiglio.
    I fauves non parlano - provai a ripetere a me stesso, per lasciare scemare quella sensazione di terrore che man mano stava finendo con il farmi irrigidire sempre di più. Lei invece si mosse ancora, sciolta come io non avrei potuto esserlo, e con elegante portamento avanzò di un paio di passi verso di me, abbozzando quello che su un volto integro e naturale avrebbe avuto le sembianze di un lieve sorriso, con quella mano ancora protesa in avanti che sembrava pretendere che io la afferrassi per rialzarmi.

    Vieni con noi. Con me e con Gary.
    Iniziai a scuotere il capo ripetutamente, freneticamente, indirizzandole un forte e convinto cenno di negazione. Non ebbi neppure il tempo di rifletterci sù, lo feci e basta, quasi come se non fossi stato neppure io a deciderlo, un po' come se la mia capacità di intendere e di volere fosse stata temporaneamente affidata a quel fottuto bastardo, quel demone che mi perseguitava e che aveva fatto delle mie viscere la sua dimora.
    Devon si fermò immediatamente e lasciò che quel suo braccio tornasse lentamente ad aderire al fianco. La sua espressione mutò repentinamente, trasformandosi in qualcosa di ben più rigido ed austero.

    Allora vai con chi è rimasto. Perchè se rimarrai ancora da solo ci raggiungerai molto presto. E' un bivio, Sam. Devi fare una scelta: o con noi, o con loro.
    Quando terminò di pronunciare quelle ultime parole ebbi la sensazione di aver sentito un rumore, forse scaturito da un vigoroso urto. Non sembrava provenire da lontano, anche se a dire il vero non sapevo neppure se fosse reale o meno date le circostanze. Non ci badai più di tanto, rimasi con lo sguardo fisso su di lei, eppure... Quella "botta", l'averla percepita in qualche modo, sembrò smuovere qualcosa dentro di me: iniziai a chiedermi se fosse stata davvero Devon a dirmi quelle cose, o se a parlare fosse stato qualcosa rimasto sepolto nei meandri della mia coscienza.

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    Edited by -Scythe- - 5/7/2019, 21:54
     
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    La consapevolezza di avere le spalle coperte giocò un ruolo cardine in quel tentativo di salvataggio. Forse non lo avrei ammesso sul momento, perché spinta da chissà quale istinto verso il felino e un'irrefrenabile audacia, oltre che dall'adrenalina... ma Nirit ed io ci proteggevamo da qualsiasi pericolo fin da quando eravamo solo delle bambine; anche se era stata una mossa repentina e non programmata, la mia, sapevo per certo che se mi fossi trovata in difficoltà mi avrebbe tirata via dai guai, illesa. O almeno ci avrebbe provato!
    Tornai da lei di corsa, col gattino stretto al petto e un'aria affatto terrorizzata. Ero sollevata per averlo salvato da morte certa, felice di avere rischiato lasciandomi l'egoismo alle spalle almeno per una volta. Non era chiaro che cosa mi avesse spinta a farlo, soprattutto dopo la fatica fatta per convincere la mia compagna a rinunciare al salvataggio di Owen e Julian... Mi sentivo tutt'altro che spaventata o pietrificata, nonostante l'enorme rischio appena corso. Nirit dal canto suo non mi nascose la sua sorpresa. Non mi aveva mai vista rompere gli schemi o più in generale improvvisare. Mi comportavo da tutta la vita come una persona estremamente cauta e riflessiva, previdente e dalla vita organizzata nel dettaglio, chiusa nella sua comfort zone e incapace di osare. Da quando la verità era venuta a galla era cambiato tutto e diventava più evidente di giorno in giorno.

    Il felino era caldo, dal pelo grigio morbido e lungo. Quando mi ero chinata per accarezzarlo e prenderlo in braccio, avevo visto da vicino le braccia violacee e putrefatte di quei mostri allungarsi minacciose verso di noi... Se non fossi stata pronta di riflessi, se solo avessi indugiato un secondo in più sulla forma triangolare del nasino o delle orecchie rosa del micio, mi avrebbero sopraffatta in un secondo. La nostra fortuna, o meglio quella di ogni sopravvissuto, era che quegli esseri fossero lenti e impacciati nonostante la fame di carne fresca.
    Non sprecammo alcun colpo né tentammo di decimare il gruppo ormai ben nutrito coi coltelli. Avremmo perso troppo tempo; trattenendoci oltre saremmo incorse nel rischio di ritrovarci presto circondate e in trappola. La nostra unica chance era correre, il più velocemente possibile, e sperare che il rumore dei nostri passi nel silenzio mortifero della città non attirasse su di noi le attenzioni di altri cadaveri ambulanti. Oltretutto, avremmo dovuto sperare di non finire in un vicolo cieco. Ci orientammo a caso, non avendo punti di riferimento, e ci fermammo solo davanti alle porte di un cortile sgombro. Trascinai gli ultimi passi, col fiatone e lo sguardo che correva da una parte all'altra della strada. Nirit aveva ragione, non potevamo rischiare di essere circondate. Dovevamo aspettare che la foga scemasse, che il nostro odore svanisse e soprattutto che quei mostri si "dimenticassero di noi". Riprendemmo fiato per un secondo, giusto il tempo necessario a guardarci intorno e capire la direzione da prendere. Entrare nell'edificio o continuare la corsa? Ci parlammo, come consuetudine, in ebraico. Annuii energicamente, mostrandomi d'accordo con la sua idea.
    « È troppo rischioso continuare. Potremmo trovarne degli altri al prossimo angolo » parlai a singhiozzi, la mancanza di fiato rendeva l'esposizione poco fluida. Nel frattempo, il gattino tirò fuori la testolina dallo zaino. Mi accarezzai il collo e avanzammo svelte verso la porta. Non era chiusa né bloccata da catene o pesi dall'interno, per nostra fortuna. Poteva voler dire che l'interno fosse sgombro... e quindi sicuro. Bastò uno sguardo perché Nirit si adoperasse a colpire lo stipite con il fucile. Non indugiò, preoccupata com'era dal numero di non morti che avevamo alle calcagna. Non ottenemmo risposta: nessun gorgoglio o passo strascicato, nessun rantolo mortale dal corridoio buio e sgombro dell'Hilti store. Entrammo.

    * * *

    Ad ogni angolo battevamo colpi abbastanza forti contro il muro, non potevamo sapere se ci fosse qualcuno all'interno cui erano sfuggiti i precedenti avvisi. Chiusa la porta bianca alle spalle, dopo averla accuratamente accompagnata con entrambe le mani per attutire ogni rumore, ne approfittai per tirare lo zaino davanti. Era mia intenzione tranquillizzare il gattino e sistemarlo meglio nello zaino. Nella corsa doveva essere stato sballottato con forza e infatti stava tentando di liberarsi da quella trappola infernale.
    « Aspetta ancora un po', piccolino. Non posso farti uscire, ok? È pericoloso » sussurrai al suo orecchio con tono dolce, aggiungendo qualche grattino per tranquillizzarlo. Lasciai per un secondo le redini e l'apertura della strada a Nirit. I miagolii del gattino non si fecero attendere... Almeno non era muto. Rilassammo le spalle e riprendemmo a respirare "normalmente" quando, all'ennesimo colpo, non ottenemmo risposte inquietanti o conferme di altre presenze oltre le nostre.

    Eravamo in un Hilti store, saccheggiato nella sua quasi totalità. Gli scaffali erano vuoti, alcuni sporchi di sangue rappreso e polvere; i pochi materiali rimasti erano stati riversati sul pavimento, come chiodi e scatole di cartone. Non avremmo potuto recuperare nulla, a cosa ci sarebbero servite quelle cose? Beh, almeno eravamo al chiuso e al riparo da quei mostri. Rimasi al fianco di Nirit; abbracciavo lo zaino e continuavo ad accarezzare la testa del gattino che si guardava intorno curioso. Gattino era un parolone, dal peso sembrava essere un gatto adulto e anche ben nutrito. Aveva degli occhi azzurri bellissimi per altro.
    Mi fermai di botto quando intravidi la figura di un uomo, in piedi intento a fissare il muro. Per istinto di protezione, allungai un braccio verso Nirit per impedirle di andare avanti; poi mi misi l'indice sulle labbra indicandole di far silenzio. Cosa stava guardando? Perché non aveva risposto ai nostri richiami? Poteva essere sordo? C'era un rianimato davanti a lui, un messaggio scritto sul muro, era minacciato da un altro essere umano vivo? Quante domande... Rimanendo lì ferme non avremmo capito nulla... Decidemmo, usando i segni come durante l'addestramento militare, di andare di lato per avere un quadro più completo della situazione. Sarebbe stato cruciale capire se fosse solo oppure sotto lo scacco di qualcuno. Lo stupore crebbe quando, nascoste dietro uno scaffale, realizzammo che fosse inequivocabilmente da solo.
    Cosa fare a quel punto? Uscire allo scoperto oppure andarcene, rischiando di ritrovarci di nuovo faccia a faccia con i rianimati? Nasconderci e aspettare, ignorandolo, era fuori discussione: e se non fosse stato da solo, se stesse aspettando dei compagni? Ci saremmo trovate in una posizione svantaggiosa... Cercai di capire se fosse armato. Sul potenzialmente pericoloso non avremmo mai avuto certezze assolute.
    « Vado avanti io, vieni fuori solo quando te lo dico. Ho bisogno che mi guardi le spalle » strinsi la mano di Nirit, per rincuorarla e subito dopo mi esposi. Mi allontanai dagli scaffali e con passi moderati ma ben udibili tornai al centro del corridoio, in modo che quell'uomo potesse vedermi.
    « Hei » portai una mano avanti immediatamente, richiamandolo e allo stesso tempo per mostrare che fossi "innocua". « Non avere paura, non voglio farti del male. Ho... bussato, molte volte, prima di entrare. Non hai risposto, credevo fosse vuoto ». Decisi di comportarmi come una mediatrice.

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    Vivere - sopravvivere - nella città era ormai sempre più difficile, tra nemici vivi e nemici morti; io e Liv conoscevamo i pericoli che avremmo affrontato nel Loop e il mutare delle nostre fortune in quella spedizione non fu particolarmente sorprendente, quanto mi turbava maggiormente era la consapevolezza del fatto che, tra le nostre valutazioni, avevamo concordato che fosse un buon rifugio per fuggire dai nostri persecutori.
    In tal modo, una trappola infernale e mortale come il centro di Chicago era diventata un rifugio sicuro da mostri peggiori dei rianimati... e personalmente credevo fosse piuttosto tragico. Dovevamo recuperare la maggiore quantità possibile di risorse (possibilmente evitando di perdere la vita) e abbandonare la città, lasciando alle spalle i nostri fantasmi e i nostri nemici.
    Chicago non era la nostra casa, non era mai stata tale, la nostra casa era Israele e, anche, qualsiasi luogo in cui fossimo insieme: casa era dove riposava il nostro cuore e, in quel periodo più che mai, riposava nei occhi dell'altra.
    Molto era cambiato dallo scoppio dell'epidemia, iniziando da noi stesse, ma non sarebbe mai mutata l'attenzione e l'ansia con cui osservai Liv recuperare il gattino; il fucile era scarsamente utile ma fui abbastanza rapida nel sollevarlo per proteggere la sua improvvisa corsa, seguendola quindi nella fuga dai nostri sgraditi inseguitori.

    In quel mondo, ogni errore sarebbe potuto essere letale e nel Loop quella verità era perfino maggiore: la decisione di cercare rifugio in quel negozio abbandonato, fu condivisa e naturale, specialmente perché era l'opzione maggiormente prudente. Avevamo decisamente necessità di rafforzare il nostro equipaggiamento militare, perché non potevamo costantemente evitare ogni scontro per non azzerare le nostre risorse.
    Assunsi una posizione avanzata rispetto alla sua, sia perché meno affaticata rispetto a lei, sia perché avevamo sempre affrontato le esplorazioni di nuovi edifici in quel modo; il silenzio assoluto accolse i miei prudenti colpi contro la porta, lasciando sperare ad entrambe che non avremmo trovato altri mostri nel buio, ma procedemmo comunque con misurata lentezza.
    Pur attirata dal tenero gattino recuperato da Olivia - e dal desiderio crescente di scambiare con lei almeno un piccolo bacio -, mi sforzai di mantenere concentrazione e calma, avanzando nelle tenebre. La presa sul fucile era ormai umida, sudata, ma comunque salda, nonostante l'ansia: osservare la punta dell'arma fendere l'oscurità era in un modo rassicurante, quasi fosse la nostra "torcia" in quel luogo buio.
    Avere chiarito i miei sentimenti nei confronti di Liv e avere ripreso il nostro rapporto dopo alcune, terribili, settimane di separazione, aveva donato pace al mio cuore e un po' di fiducia al mio animo; a causa del mio carattere influenzabile e succube delle emozioni, infatti, avevo sempre sofferto per quanto subivo, spesso ri-alzandomi con difficoltà. Avere abbandonato Liv mi aveva spinta in un pozzo profondo e privo di uscite ma averla ritrovata mi aveva donato nuova energia e forza.

    Diressi l'arma verso la figura solitaria presente nell'edificio, apparsa improvvisamente come se fosse un fantasma e in una posizione piuttosto inquietante, pronta a sparare: la linea di fuoco era libera, non avrei fallito. La mia educazione e la mia religione (a cui, lentamente, stavo cercando di ri-avvicinarmi dopo la crisi subita), tuttavia, fermarono la mia mano... non avevamo alcuna idea riguardo la sua identità, sebbene fosse strana la sua noncuranza verso i segnali sonori con cui avevamo annunciato la nostra presenza.
    Il suo viso era nascosto e fisicamente era piuttosto muscoloso ma, sinceramente, dubitavo fosse uno tra It e il fratello... ovviamente sarebbe potuto essere un membro sconosciuto della loro "famiglia", non sarebbe stato invero sorprendente, ma avevo la chiara sensazione che non fosse legato ai nostri terribili avversari.
    Olivia assunse il controllo della situazione, con naturalezza e autorevolezza, facendomi nuovamente notare quanto fosse cambiata nelle ultime settimane... prima dell'incontro con la compagna di It, aveva raramente mostrato quel lato di sè, per quanto io fossi sempre stata convinta della sua esistenza.
    Rispetto al passato in cui era sempre stata silenziosa e arrendevole, i ruoli nella nostra coppia si erano completamente rovesciati: Liv aveva assunto un ruolo maggiormente dominante, anche nell'intimità, mentre io ero diventata molto più remissiva. Ai miei occhi era piuttosto normale, perché entrambe avevamo compiuto un'importante evoluzione, legata al nostro rapporto, ed ogni cambiamento era giunto in modo assolutamente naturale...
    Avvicinarsi all'uomo misterioso era rischioso ma non avevamo alternative, abbandonare l'edificio sarebbe stato potenzialmente letale e aggredirlo furtivamente sarebbe stato intollerabile per la nostra morale; non ero felice del fatto che Liv avesse deciso di avanzare sola verso quell'uomo ma, analizzando la situazione lucidamente, era l'idea migliore. Olivia avrebbe gestito il primo incontro con quell'uomo con lucidità e freddezza - io non sarei stata in grado - e avrebbe sicuramente mantenuto un atteggiamento più amichevole e affidabile rispetto al mio, incline a mutare per le sollecitazioni esterne.
    Annuii appena, preoccupata e ansiosa, sforzandomi di respirare nel modo appreso durante l'insegnamento, inginocchiandomi dietro uno scaffale e sfruttandolo come appoggio per il fucile; il mirino era totalmente inutile, quindi posizionai la testa lateralmente rispetto all'arma, valutando come "adeguare" il mirino rappresentato dal mio occhio sinistro per sparare (eventualmente) con sufficiente precisione. La mia posizione era favorevole, Liv non sarebbe stata un ostacolo tra me e l'uomo, potevamo soltanto sperare che non fosse necessario combattere...
    Rivolsi una breve, involontaria, preghiera a YHWH - evento che mi colpì - e citai mentalmente il motto della nostra unità nell'esercito, inspirando profondamente e indirizzando il fucile verso la testa dell'uomo.


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    Un rumore di passi mi fece voltare - quasi di scatto - alla mia sinistra, per individuarne la fonte. Al mio già sufficientemente complicato stato confusionale si aggiunse l'improvvisa apparizione di quella donna e tutte le sensazioni, contrastanti tra loro, che iniziarono a scorrere con l'impeto di un fiume in piena nella mia mente: non sapevo se potesse essere pericolosa, se sarebbe stato il caso di stringere con più decisione l'impugnatura del coltello, o se essere felice del suo arrivo... Del semplice fatto che fosse lì, in carne ed ossa, che stesse parlando stabilendo con me quel genere di "contatto" umano di cui ero rimasto del tutto privo per mesi. Non c'era tempo per pensare, per ponderare una scelta, poichè nel peggiore dei casi mi sarei ritrovato nella merda fino al collo ancor prima di accorgermene. Eppure, in quel frangente, quel rapido flusso di pensieri mi faceva sentire la testa meno pesante. Era come se fossi più lucido, reattivo, più consapevole dei miei movimenti, dello spazio circostante e delle opzioni a mia disposizione.
    Mi alzai da terra, senza avvicinarmi né allontanarmi, rimanendo esattamente nello stesso punto in cui mi trovavo prima, a pochissima distanza dal bancone. Quella donna, sicuramente più giovane di me, forse di dieci anni o poco meno, stava provando a dissipare l'inevitabile ostilità che aveva iniziato a permeare l'interno di quel negozio. Una delle sue mani era protesa in avanti e in bella mostra, mentre le sue parole sembravano essere rassicuranti e apparentemente lontane anni luce da eventuali biechi propositi. Il problema, forse, non era tanto il riuscire a stabilire se valesse la pena di concedere un briciolo di fiducia a lei, al modo in cui si era rivelata e a quello in cui si era posta. Dovevo capire, prima di tutto, se potessi davvero fidarmi di me stesso: era davvero lì? Potevo esserne certo? Si trattava di un vero incontro, reale, oppure ero rimasto intrappolato nell'incolore ed intangibile prigione della follia?
    Lo capii quando rivolsi lievemente il capo verso destra e trovai il vuoto, quello lasciato da Devon... Mia moglie, quello che era o che era diventata, non c'era più. Strizzai gli occhi, serrando con forza le palpebre, per poi riaprirle velocemente e constatare che fosse davvero sparita, forse inghiottita di nuovo da quella dimensione in cui era finita dopo aver lasciato questo mondo. Tornai ad inquadrare la ragazza: lei invece era ancora lì e non ebbi più alcun dubbio; fu come risvegliarsi in un letto d'ospedale una volta terminato l'effetto di un anestetico, con il sangue in circolo di nuovo pulito o quasi. Mi resi conto, per la prima volta da quando la vidi davanti a me, di come invece sarei potuto apparire io ai suoi occhi: con lo sguardo stralunato, il volto inzuppato di lacrime e sudore, e con quel maledetto coltello ancora stretto dalla mia mano destra... Con la punta rivolta in avanti, proprio in sua direzione.
    Fu questione di qualche frazione di secondo. Lo gettai sulla superficie del bancone, d'istinto. Sarebbe potuta essere la più grossa cazzata mai compiuta dall'inizio dell'epidemia, o forse la scelta più saggia. Non potevo saperlo, mi feci guidare da una forza interiore, quasi primordiale, sulla quale non volevo né avrei potuto interrogarmi. L'istinto di sopravvivenza, d'altronde, non induce sempre all'offensiva: alle volte comanda di fare qualunque cosa possibile per eludere quella altrui. Mossi un passo laterale verso destra, in modo da farle notare con chiarezza la mia tendenza ad allontanarmi da quell'arma bianca che avevo con me ormai da due anni, ma mai abbastanza da essermi preclusa la possibilità di guizzare nuovamente nella direzione opposta per riprendere il coltello con me, qualora le cose si fossero messe male. Fu mia premura, subito dopo, allargare un po' le braccia e mettere in mostra ambedue le mani a palmo aperto, cosicchè anche lei potesse aver ben chiaro che avremmo potuto darci una possibilità a vicenda, raggiungendo una sorta di implicito ed indiretto accordo che necessitava solo dei movimenti giusti ancor prima che delle parole. Sicuramente avrebbe notato quel guanto di pelle nera che copriva interamente la mia mano sinistra, ma difficilmente si sarebbe potuta accorgere della mia menomazione, a meno che non fosse stato un contatto fisico o un'indagine visiva più accurata a disvelarla.
    Sapevo bene quanto fosse alto il rischio e che avrei potuto pagarlo a caro prezzo maledicendo - un attimo prima - l'aver peccato d'ingenuità, o forse di stupidità. Ma pian piano, prima ancora che riuscissi a dire qualcosa a quella donna, iniziò a farsi sempre più chiara dentro di me la ragione per la quale avevo deciso di correrlo.

    Te lo devo. Ripensai a lei, a quella ragazza. Gwen, era Gwen il suo nome. Permettermi di continuare a vivere le costò la sua, di vita. Non aveva nessun obbligo, nessuno gliel'aveva chiesto. Lo fece e basta, sapendo a cosa sarebbe potuta andare incontro, semplicemente perchè credeva in qualcosa. Era un po' come se avessi assorbito la sua anima, portandola con me insieme al prezioso insegnamento che mi diede: non smettere di sperare che le fiamme di questo inferno sceso in terra si abbassino e, un giorno, svaniscano; dare sempre almeno una possibilità agli altri vivi, agli esseri umani rimasti, alle persone.
    Non potevo associare l'immagine, il ricordo di Gwen, a quella donna che mi aveva raggiunto all'interno dell'Hilti. Erano così diverse, non si somigliavano molto. Ma qualcosa in comune ce l'avevano: l'aver scelto di darmi una chance, anche minima, qualcosa di raro e prezioso di questi tempi.
    I lineamenti del mio volto tornarono a distendersi facendomi assumere dei connotati più "naturali" e il mio animo a rasserenarsi, per quanto possibile. Valeva la pena di accettare l'idea che da quell'inaspettato incontro potesse scaturire qualcosa di positivo, anche se mi fossi sbagliato. Magari sarei morto, non avrei potuto saperlo... Ma ero assolutamente certo che il gioco valesse la candela in qualunque caso, dovevo provarci. Per me stesso, per Gwen, per quella sconosciuta, per tutti gli altri rimasti lì fuori. Che senso avrebbe avuto continuare a sopravvivere senza giocare qualche "all-in" per scoprire se esiste ancora un futuro, qualcosa da poter costruire sulle ceneri di quel che è stato?

    Tuttavia quella nuova energia, quella linfa vitale, sembrò scemare un po' quando alle mie orecchie giunsero dei rumori, molteplici e facilmente riconoscibili, provenienti dall'esterno del negozio. Fauves: erano sicuramente più numerosi rispetto a prima e non fu complicato comprendere cosa, o chi, li avesse attirati. Non sarebbe più stato così facile eluderli, aggirarli, ma avrei potuto cavarmela. Essendo vissuto completamente da solo per lungo tempo, potendo disporre solo e soltanto dei miei mezzi, mi ero ritrovato spesso a dover sperimentare in breve tempo sistemi e soluzioni per salvarmi la pelle. Avrei sicuramente trovato un modo, forse strambo e macchinoso ma capace di ridurre rischi e pericoli al minimo... Il problema sarebbe stato un altro: convincere quella donna a lasciarmi provare, ad affidare - seppur per breve tempo - la sua vita alle mie mani. Un'impresa titanica, forse impossibile.
    Provai a sostenere lo sguardo di quella ragazza con il mio e, dopo un sospiro carico di nuove ansie e preoccupazioni, finalmente le mie labbra si schiusero.
    Ti sei portata dietro tanti di quei fauves da far rivoltare Vauxcelles nella sua tomba.
    Furono le mie prime parole. Prima che le pronunciassi passarono lunghi interminabili secondi, eppure erano tutto fuorchè misurate, ponderate. Pensai di essere un idiota: c'era dietro un'ironia talmente nera che, in tempi più lieti, avrei fatto accapponare la pelle perfino ad un inglese. Mi venne naturale, senza che riflettessi sul fatto di aver menzionato una vicenda che, al di fuori di chi in passato si era occupato d'arte o ne era stato un appassionato, non era poi così tanto nota. Avevo percepito dentro di me un input, un fabbisogno di esprimermi o forse di insinuare in quella strana atmosfera qualcosa che facesse sbocciare della curiosità, o altri stimoli capaci di rendere l'aria "più respirabile". Quella frase, di per sè, non voleva dire molto. Avevo detto una stronzata, lo sapevo benissimo. Lei sapeva meglio di me cosa si era lasciata alle spalle entrando in quel negozio e l'unica vera informazione utile che avrebbe potuto cogliere, forse, non sarebbe stata altro che quell'appellativo. Forse avrebbe intuito che fossi solito associarlo ai morti, che ero abituato a chiamarli così.

    Sam. E' il mio nome. E no, non ti ho sentita arrivare perchè... Beh, è una storia lunga.
    Già, come avrei potuto spiegare ad una perfetta estranea tutto quel casino che proliferava nella mia testa dopo mesi e mesi di morte, perdite e stenti? Ma soprattutto, lei avrebbe voluto saperlo? Gliene sarebbe importato qualcosa? Era già tanto che fossimo lì, a mantenere una certa distanza l'uno dall'altra senza provare ad ammazzarci a vicenda. Questo lo sapevo bene, non potevo trascurarlo nonostante mi sentissi più che predisposto ad un dialogo, ad una qualunque interazione più o meno pacifica.
    Magari troverò il modo di spiegartelo. Ma prima... Devo chiederti di mettere bene in mostra anche l'altra mano. Spero tu comprenda.
    Era solo per precauzione e per avere la garanzia di una condizione di parità, niente di più. Non potevo sapere se l'altra sua mano potesse essere armata o meno. Avrei fatto il possibile per venirle incontro e mostrarmi innocuo, ma non sarei stato disposto a puntare così tanto senza criterio, totalmente alla cieca. Poteva essere chiunque, per quanto ne sapessi avrebbe anche potuto recitare bene la parte della filantropa o della ragazza prudente ed innocua in attesa che mi esponessi e risultasse più facile fregarmi.

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    Col palmo aperto verso di lui, tentai di stabilire un contatto iniziale. Non volevo allarmarlo né insospettirlo, meglio evitare gesti repentini o l'invasione dei suoi spazi mascherata da buoni propositi. John Doe - l'avrei chiamato così per comodità - era armato e visibilmente sconvolto; continuava a lanciare lo sguardo verso il muro vuoto, come a voler cercare conforto o risposte. Il confine tra uno stato emotivo precario e il concretizzarsi di un gesto inconsulto era molto labile; avrei dovuto procedere con cautela. Parlai per prima, forte della copertura di Nirit e delle mie stesse capacità: usai un tono morbido e rassicurante; tentai di ignorare, almeno in apparenza, la minaccia del coltello puntato contro e di concentrarmi su di lui perché non si sentisse attaccato o in trappola. Naturalmente non lo avrei perso di vista e al minimo accenno di pericolo avrei reagito per salvarmi la vita, anche a costo della sua. Quando eravamo entrate, lo avevamo trovato a fissare inginocchiato il muro vuoto. Avevamo pensato che fosse sotto lo scacco di qualcuno, di un non morto o di un vivo aguzzino. Non immaginavo affatto come stessero in realtà le cose per lui.
    « Sei da solo? » tentai di continuare sulla strada della comunicazione. Non mi sembrava sordo come avevo ipotizzato all'inizio, perché il suo corpo reagiva alla mia voce. E ai miagolii del Gatto, che tentavo di tenere giù nello zaino con la mano libera. Tuttavia, ancora niente risposte. Nonostante la tensione altissima, sentivo di avere ancora il controllo e una chance di evitare il peggio.

    « P-perché non abbassi lentamente quel coltello? Sarebbe un buon primo passo » se avesse compiuto un gesto repentino e inaspettato, Nirit gli avrebbe fatto esplodere la testa - col rischio di rimanere ferita lei stessa data la gittata dell'arma. Volevo evitare spargimenti di sangue e sperai sinceramente di non fallire nella mediazione.
    Sollevai quindi un sopracciglio e, dolcemente, tentai di convincerlo a seguire il mio suggerimento guardandolo dritto negli occhi e incitandolo con un semplice cenno del capo. I gesti di Doe di lì a poco furono piuttosto singolari: si voltò a guardare di nuovo verso il muro con uno scatto e quando tornò su di me avrei giurato che fosse più pallido di prima, quasi avesse visto un fantasma. Si rimise in piedi lentamente e boccheggiando, guardandomi stralunato, col fiato corto e un'espressione indecifrabile sul viso. Oltre all'arma in bella vista, tentai di fare una rapida analisi esterna della sua persona. Non sembrava sporco di sangue né di frattaglie di mostri, probabilmente non aveva avuto a che fare con gli stessi gruppi che avevamo incontrato noi e non si era rifugiato lì in extremis com'era invece stato per me e la Amar. Il sudore così copioso mi fece riflettere sulla possibilità che potesse essere stato morso e che l'infezione fosse in atto, misto al pallore e la faccia terrorizzata. A quel punto ogni possibilità di ricostruzione si bloccò in tronco: John Doe lanciò improvvisamente via la lama.
    Il modo in cui lo fece, la velocità con cui il suo braccio si mosse e il coltello lacerò l'aria mi lasciarono ipotizzare per una lunga frazione di secondo che avesse tutte le intenzioni di colpirmi. Trattenni il fiato e sentii il cuore salirmi dritto in gola; trasalii, inevitabilmente, quando la lama toccò la superficie del bancone producendo un rumore metallico. Contemporaneamente però avevo spostato il palmo in direzione di Nirit, per dirle di non esplodere alcun colpo. Quale parte di lentamente non aveva capito? Non sapeva che gesti di quel tipo avrebbero potuto portarlo a ritrovarsi con il cranio fracassato e il cervello in pappa? Battei le palpebre per scacciare via la tensione e tornai a respirare, decisamente meno in ansia senza l'arma puntata contro. Poi, la rivelazione. John Doe parlò e la mia reazione fu abbastanza confusa. Ma che...? Scossi un po' la testa e lo guardai di sbieco. Con le labbra strette, a voler dire qualcosa ma senza emettere alcun suono, misi in funzione il cervello; me ne andai per idea e dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante finalmente gli risposi.
    « Uhm... i rianimati? » domandai per ottenere conferma da parte sua. Ognuno si riferiva ai non morti usando epiteti diversi, a volte era più che normale provare un senso di smarrimento di fronte ad uno nuovo e mai sentito. Bisognava solo farci l'abitudine, ecco. Per istinto, lanciai uno sguardo verso la porta da cui eravamo entrate io e Nirit; pur non vedendola chiaramente, accertarmi che fosse tutto ok lì dietro mi tranquillizzò un po' di più.
    « Non potevo lasciare che Gatto... » a quel punto, mi rivelò il suo nome. Per poco le nostre voci non si accavallarono.
    Tornai su di lui e, dopo un'ultima carezza alla testa di Gatto, gli mostrai anche l'altra mano come mi aveva richiesto. Ero convinta di aver rassicurato il felino abbastanza da lasciarlo tranquillo nello zaino, quindi smisi di coccolarlo per assecondare la volontà di Sam. Gli mostrai la mano, libera da tracce di sangue o ferite. Il pensiero intanto andava alla mia compagna, ancora nascosta dietro gli scaffali: come avrei potuto introdurla a Sam senza insospettirlo?
    « Sam. Io mi chiamo Olivia » A quel punto, finalmente libero. Gatto balzò fuori dallo zaino. Miagolò in direzione dell'uomo prima di sparire dietro gli scaffali, tornando da Nirit.
    « Sei più tranquillo ora? »


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    Edited by aquamärine - 26/7/2019, 22:27
     
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    Consideravo piuttosto triste il livello di diffidenza che, ormai, accompagnava ogni incontro con estranei: la società era scomparsa, ogni briciolo di fiducia, di apertura verso il prossimo era svanito. Per quanto potessimo cercare di essere aperte e fiduciose, era inevitabile temere che ogni individuo fosse un altro It, un superstite reso folle da quella desolazione oppure, semplicemente, un criminale nell'animo.
    Il lento approccio di Olivia nei suoi confronti, la tensione evidente e quasi concreta, richiamarono il ricordo delle pattuglie abituali nella nostra patria, quando nei posti di blocco il rischio era un abituale compagno; nessuno poteva prevedere cosa sarebbe potuto accadere nell'istante successivo: un'aggressione con coltello da parte di un palestinese, un attentatore suicida, un razzo qassam... la vita nella nostra meravigliosa casa non era, purtroppo, totalmente sicura e spesso i nostri (sgraditi) vicini attaccavano sia le forze armate sia i civili.
    Io e Olivia eravamo state addestrate come cecchine ma avevamo trascorso molte ore a presidiare aree delicate come Gerusalemme oppure checkpoint militari lungo le strade, affiancate spesso da ufficiali esperti; ognuno tra loro aveva ripetuto costantemente quanto fosse importante - fondamentale - agire con rapidità ed efficacia, quanto fosse importante distinguere un potenziale pericolo da qualcosa di innocuo. Non era semplice, eppure avevamo sempre affrontato quelle ore con dedizione, passione e impegno, consapevoli di quanto il nostro lavoro fosse importante per proteggere i nostri cittadini innocenti.
    Pur non avendo doti di comando né la freddezza necessaria a gestire situazioni delicate come quella in atto in quei momenti, potevo affermare senza arroganza di essere piuttosto affidabile per quanto riguardava la precisione con le armi da fuoco: i miei punteggi nel poligono e nelle esercitazioni, specialmente per quanto riguardava il fucile di precisione, erano costantemente tra quelli migliori.
    Dovevo concentrarmi su quel pensiero e sulla fiducia che Olivia aveva riposto in me, mantenendo il sangue freddo, pronta ad intervenire se necessario. Speravo non fosse necessario uccidere quell'uomo ma, se avesse minacciato la mia compagna, non avrei esitato.

    Lo sconosciuto era armato ma, pensai, era piuttosto prevedibile... l'arma che impugnava, peraltro, era un semplice coltello e rappresentava un pericolo minore rispetto a una pistola, specialmente perché non sarebbe stato in grado di raggiungere Olivia prima che un proiettile perforasse il suo cranio.
    Concentrandomi sulla respirazione a cui ero stata addestrata, seguii con febbrile attenzione il dialogo tra loro, fermando il mio dito una frazione di secondo prima che premesse il grilletto, quando l'uomo lanciò il coltello; fu una reazione istintiva, la mia mente registrò il cenno di Liv, giunto un minimo istante prima che sparassi, e interruppe la mia reazione. Fu questione di un istante, di un minuscolo frammento di un istante, ma sufficiente a impedire che la vita di quell'uomo finisse in quel buio locale.
    Non compresi alcune tra le parole che utilizzò, ritenendo fossero termini francesi (lingua che conoscevo appena e che non sarei mai stata in grado di parlare), per quanto il suo accento sembrasse essere assolutamente americano; avevo imparato a riconoscere vari accenti della loro nazione - specialmente perché il nostro accento era chiaramente straniero - mentre lavoravo e potevo ragionevolmente supporre che fosse indubbiamente americano.
    La richiesta da lui avanzata nei confronti della mia compagna, mostrare entrambe le mani, mi sembrò essere ragionevole... e non avrebbe comportato per lei rischi particolari, considerando che la mia arma era perfettamente puntata sulla testa dell'uomo. Rivolsi una breve riflessione al suo tono di voce e al suo atteggiamento, credendo (oppure volendo credere) che fosse associabile ad un qualsiasi, normale, sopravvissuto di quella orribile epidemia.
    Un sopravvissuto, non un assassino.

    Il gatto salvato da Olivia lasciò lo zaino non appena ne fu in grado, dirigendosi, sorprendentemente, verso di me; serrai i denti, sperando che non attirasse eccessivamente l'attenzione verso la mia posizione, per quanto fossi quasi invisibile dietro lo scaffale, immersa nell'oscurità dell'edificio. Nessuna luce illuminava la mia posizione e nessun raggio sarebbe stato riflesso dal mirino del fucile, tuttavia dovevo evitare movimenti rapidi oppure esagerati... non fu semplice, considerando che il gatto mi raggiunse e si accucciò vicino alla mia gamba sinistra, miagolando dolcemente.
    La mia sudorazione e ansia aumentarono inevitabilmente ma riuscii a controllare le mie emozioni, accarezzando appena, lentamente, l'animale con una mano per un istante; la mano tornò quindi ad impugnare il fucile, sempre appoggiato sullo scaffale, mentre attendevo lo sviluppo dell'incontro. Non sarebbe stato semplice, eventualmente, spiegare a quell'uomo perché Olivia avesse mentito riguardo il fatto di essere sola ma avremmo affrontato il problema quando fosse stato necessario.
    Se fosse stato necessario.


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  10. -Scythe-
     
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    Quando la ragazza trasalì nell'esatto momento in cui gettai il coltello sul bancone non mi soffermai più di tanto sulla natura di quella reazione, ritenevo potesse essere collegata a qualunque cosa che - volendo o no - non sarei riuscito a spiegarmi se non chiedendoglielo direttamente di persona. E farlo, beh, di certo sarebbe stato alquanto fuori luogo dato che ci stavamo focalizzando su necessità ben più rilevanti. Ma un paio di minuti più tardi, mentre l'attenzione era ormai rivolta a tutt'altro, un repentino e lampante flashback parve illuminarmi: avevo afferrato la connessione che prima mi era sfuggita del tutto. Ero così poco abituato ad incontrare altre persone che mi erano mancate completamente quell'accortezza e quella cautela che in genere ogni superstite di questo mondo andato a rotoli dovrebbe adottare ogniqualvota incontra degli sconosciuti. La mia impulsività e il non aver badato a muovermi lentamente probabilmente l'avevano portata a supporre di essere in procinto di subire un'offensiva. Chissà, magari aveva già escogitato qualcosa per indirizzarmi un valido contrattacco... Sarebbe potuta finire male, molto male, e neanche ne avrei capito il perchè.

    Scusami, Olivia... Non vedo altre persone da un po', non ci sono più abituato.

    Fu mia premura farglielo sapere, affinchè potesse capire perchè ero stato così poco prudente. Non potevo dire di essere vicino a riporre della fiducia in lei soltanto per il modo in cui si era posta, ma mi facevo bastare il fatto che nessuno di noi due fosse ancora morto affinché potessi almeno sperare di far scaturire, da quell'incontro casuale, un'interazione un po' più umana e normale... Sebbene nessuno di noi sapesse più da anni cosa fosse la normalità. E il modo migliore che trovai per iniziare a costruire la base per un ipotetico scambio fu quello di provare a porgerle le mie scuse, ma a modo mio: dandole qualcosa che voleva, dicendole ciò che voleva sapere. Era già implicito stando a quanto le avevo confessato poco prima, ma volevo rassicurarla e offrirle un'ulteriore conferma.

    Si, sono solo. E tu?

    Avrei potuto rendere la faccenda più complessa e menzionare il genere di assurdi incontri che facevo quasi ogni giorno, qualcosa che di fatto faceva di me un bugiardo nell'aver affermato di essere davvero completamente da solo, ma la situazione era già piuttosto difficile di suo e di certo sarebbe stato sconsigliabile porgerle quel nodo marinaro da sbrogliare. Sarei stato più pragmatico, omettendo Devon, Gary, tutto quello che mi capitava e che mi era capitato fino a pochi istanti prima che tra me e Olivia cominciasse una sorta di conversazione.
    Le chiesi anch'io la stessa cosa, e non mi riferivo di certo a quel gatto che teneva dentro lo zaino, che ora si era allontanato verso quel buio corridoio che avevamo percorso entrambi prima di raggiungere l'ambiente principale del negozio. Aveva iniziato a miagolare, pensai per un attimo che avesse trovato un roditore, o un insetto. Non potevo neanche lontanamente immaginare che lì dietro potesse celarsi qualcun'altro, anche perché mi ero fatto un'idea ben precisa a riguardo, completamente sbagliata: se fosse stata in compagnia lei e chiunque altro al suo seguito avrebbero fatto leva sul numero per sventare in maniera repentina la minaccia che costituiva il mio misero coltello. Ma che fossi davvero solo potevo saperlo soltanto io, non loro. Rimanere ancorato al mio punto di vista mi trasse in inganno. Inoltre, cosa invece un po' più plausibile e verosimile, mi ero convinto anche del fatto che - una volta disarmato e disposto al dialogo - se ci fossero state altre persone, beh, queste sarebbero sicuramente uscite allo scoperto. Non accadde, dunque per me Olivia era da sola tanto quanto me, escluso il piccolo felino.
    Ora che la tensione sembrava iniziare a scemare almeno un po' riuscivo a cogliere segnali che prima non percepivo affatto a causa dell'adrenalina, dell'ansia, del nervosismo. Il modo in cui le parole di Olivia arrivavano alle mie orecchie mi portò a supporre che lei non fosse di quelle parti. Probabilmente non era americana, o magari era anche una cittadina degli States ma di certo non nata, cresciuta e vissuta qui. Il suo accento aveva qualcosa di diverso non solo dalla cadenza dell'Illinois, ma proprio da quella statunitense in generale. Non riuscii ad intuire quale potesse essere l'area geografica da cui proveniva, né mi soffermai ad indagare per scoprirlo.
    Tornai, piuttosto, su un altro quesito che mi aveva posto. Come avevo immaginato subito dopo aver esordito con quella stramba frase, la prima in assoluto che le rivolsi, non ero riuscito ad indirizzarle un messaggio verbale di immediata comprensione. Mi era uscita un po' così, senza ragionarci sù, ma poco dopo pensai che forse mi sarebbe tornata utile in qualche modo. Si sarebbe potuta trasformare in uno spunto di conversazione, ammesso che fosse lecito o saggio intraprenderne una: avrei potuto da una parte darle qualcosa di me, del mio punto di vista su come stavano andando le cose, della mia inesauribile voglia di condire anche la visione più turpe con un po' di vaneggiamenti pseudo-filosofici. Giusto per rendere il tempo di permanenza in quella che ormai si era trasformata in una gabbia mortale un minimo più piacevole, per smorzare la tensione e l'ostilità, per mantenere alto il morale; e, dall'altra, avrei potuto soddisfare un fabbisogno impellente che ormai aveva iniziato a martellarmi le tempie da qualche minuto... Parlare. Maledizione, avevo sempre odiato le persone logorroiche, ma non comunicavo con nessuno ormai da mesi e mi serviva tanto quanto mangiare e bere. Ero certo che se avessi cominciato sarei stato un fiume in piena, che non mi sarei neppure riconosciuto per questo. Stavo combattendo con me stesso per decidermi se farlo oppure no quando capii che avrei iniziato a vomitare frasi da lì a breve. Oltre a quella faccenda dei fauves c'era un'altra questione decisamente più urgente che avrei voluto sottoporle, e cioè la mia "idea" sul come uscire fuori da quel posto ormai circondato dai morti. Ma optai per la prima, sebbene non godesse della minima priorità sull'altra, solo perchè speravo dentro di me che mostrando ad Olivia qualcosa di più "umano" sarebbe stata più disposta, in seguito, ad ascoltare e tenere in considerazione la soluzione partorita dalla mente di un perfetto sconosciuto per salvare il culo ad entrambi.

    Si, i rianimati. Vedi... Agli inizi del Novecento in Francia ci fu una mostra ufficiale, alla quale presero parte Matisse e altri artisti che condividevano con lui idee e modi di esprimersi. I loro lavori, dai colori vivi, sgargianti, quasi violenti, si trovavano tutti nella stessa sala del Salòn insieme ad una sola ed unica statua di stampo tradizionale, naturalistica, classica. Il critico Vauxcelles, che come tutti i suoi colleghi era solito demolire le proposte innovative, entrando in sala e riferendosi a quella statua esclamò indignato: Donatello chez les fauves! Donatello tra le belve.
    Penso che noi, io, te e tutti gli altri vivi... Siamo un po' come quella statua. Un ultimo appiglio al quale si sta aggrappando la natura umana per non svanire, inghiottita dalle belve feroci.


    Non mi stupii soltanto di quanto avessi parlato, ma anche del fatto che se non mi fossi auto-imposto di fermarmi probabilmente sarei andato ancora avanti per le lunghe. Forse le avrei detto anche che Matisse e gli altri artisti usarono l'appellativo fauve come stendardo del loro movimento per provocazione, o di come ritenevo paradossale che nel mio strano parallelismo l'apprezzabile tendenza rivoluzionaria dei fauvisti avesse preso una direzione totalmente opposta, in cui adesso era la statua quella ad essere perseguitata, a doversi difendere con ogni mezzo e risorsa.
    Non sapevo come avrebbe reagito Olivia a tutto questo, se l'avesse toccata o trovata indifferente, ma almeno avrebbe capito come mai ero solito definire i morti in quel modo e - soprattutto - quali speranze riponevo ancora negli altri esseri umani, cosa mi aspettavo dal "domani".
    Chissà cosa avrebbe detto Gwen da lassù sentendomi, mi avrebbe certamente preso per i fondelli e poi sarebbe scoppiata in una grassa risata. Quando la incontrai non faceva che parlare e io la detestavo per questo, almeno all'inizio. Chissà che non fossi stato in quel frangente, invece, ad aver procurato a quella donna una fastidiosa emicrania.

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    Edited by -Scythe- - 27/7/2019, 08:08
     
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    La conversazione tra Olivia e l'uomo, se così potevamo definire quel breve, teso scambio di parole, si trascinò lentamente, nel modo più prevedibile possibile; la tensione nel locale era quasi concreta ma, lentamente, pensai si stesse diradando. L'uomo, per quanto una rapidissima osservazione tramite il mirino avesse reso evidente il suo sguardo sconvolto, aveva mantenuto un certo controllo e aveva anche abbandonato la sua arma.
    La possibilità che fosse soltanto un trucco, che avesse un'arma nascosta dietro la schiena oppure fosse accompagnato da altre persone, non era inesistente ma pensavo fosse improbabile. Olivia era disarmata, quindi avrebbe potuto facilmente estrarre un'arma e aggredirla (esludendo poi il fatto che fosse decisamente più muscoloso di lei, avendo quindi una netta superiorità anche in uno scontro fisico), ma stava invece mostrando un atteggiamento pacifico e prudente.
    Ugualmente, una ragazza (apparentemente) sola non avrebbe sicuramente rappresentato un pericolo se fosse stato accompagnato da altre persone... avrebbe potuto ovviamente cercare di proteggere altre persone, mentendo quindi sulla sua situazione in modo paragonabile ad Olivia, ma anche quella possibilità sembrava essere forzata e scarsamente probabile.
    Il gatto continuò a miagolare e strusciare la mia gamba, mentre l'uomo produceva una lunga spiegazione riguardo il termine da lui utilizzato: pur essendo abbastanza fuori luogo, ritenni molto curioso e interessante il suo racconto, oltre che sincero. A causa della mia professione, avevo sviluppato una certa capacità nel riconoscere le bugie e le verità, specialmente perché avevo intervistato ogni tipo di persona.
    La passione dell'uomo per quell'argomento, l'arte, era evidente.

    Notai infine il lieve cenno effettuato dalla mano destra di Olivia, accompagnato quindi da un breve, vagamente colpevole tentativo di preparare l'uomo alla mia apparizione. Mi alzai lentamente, curandomi di rivolgere il fucile verso il pavimento mentre, lentamente, avanzavo, abbandonando la mia oscura posizione seguita dal gatto.
    Era un momento critico e l'intera situazione sarebbe potuta degenerare in un istante, provocando conseguenze catastrofiche, a causa di ciò che vagava all'esterno di quell'edificio; uno scontro con quell'uomo, anche se avessimo vinto e fossimo rimaste illese, avrebbe attirato attenzioni che probabilmente non saremmo riuscite a gestire. Il Loop era una trappola mortale, ogni azione, ogni passo doveva essere effettuato con estrema attenzione.
    Shalom haver abbozzai, salutandolo in ebraico, rivolgendogli uno sguardo a metà tra amichevole e impaurita. Non ero una figura particolarmente temibile ma comprendevo che, sia a causa del fucile che impugnavo sia a causa della sorpresa, avrei turbato l'uomo... e non avevo alcuna intenzione di combattere, avremmo perso a prescindere dall'esito dello scontro.
    Non... abbiamo cattive intenzioni aggiunsi, con un inglese un po' stentato, posando per un istante lo sguardo su Olivia, alla ricerca del suo conforto e supporto. Il gatto, invece, non sembrava essere turbato dalla situazione e si limitò a posizionarsi tra me e la mia compagna, in silenziosa attesa.


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10 replies since 28/6/2019, 19:36   270 views
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